La parola “trauma” è oggi entrata nell’uso comune, se non abusata. La buona abitudine, in questi casi, è sempre quella di provare a interrogare le parole per capire cosa contengono e utilizzarle in buona coscienza!

Il termine deriva dal greco trayma, letteralmente “trafittura, perforazione”, ma anche “ferita”. Le esperienze traumatizzanti creano in effetti un turbamento dell’omeostasi psichica cui la mente reagisce difensivamente con una frattura tra parti del sé o della personalità.
Per citare qualche definizione clinica, per
Laplance e Pontalis “trauma psichico” è “un evento della vita della persona che è caratterizzato dalla sua intensità, dall’incapacità del soggetto di rispondervi adeguatamente, dalla viva agitazione e dagli effetti patogeni durevoli che esso provoca nell’organizzazione psichica”. Similmente, Selye collega il trauma alla mancata capacità di un soggetto di adattarsi alle situazioni della vita; e Tagliavini aggiunge come le dinamiche di traumatizzazione si basino sul modo unico e individuale con cui un individuo esperisce un evento, una serie di eventi o un insieme di condizioni durature nelle quali è sopraffatta la sua capacità di integrare la propria esperienza.

Ma cosa rende un evento potenzialmente traumatizzante un trauma vero e proprio in grado di far questo alla psiche di un individuo?

Per comprendere la dinamica di traumatizzazione, è sicuramente necessario indagare l’evento-cardine che può aver generato tale destrutturazione; tuttavia, ciò non è sufficiente!
A fronte di un evento potenzialmente traumatico, bisogna prendere in esame anche la storia e le caratteristiche personologiche della persona.

Tutti gli eventi stressanti, infatti, sono potenzialmente traumatizzanti; è la presenza di una SOGGETTIVITA’ più resiliente o più vulnerabile ad influire sul generare la dinamica di traumatizzazione!

  • Se il paziente è “resiliente”, ovvero possiede una serie di solide risorse (biologiche, emotive, psicologiche, relazionali, affettive, sociali, massimizzate da uno stile di attaccamento sicuro) in grado di attivarsi in situazioni più o meno stressanti legate alla sua sopravvivenza e al suo benessere, egli sarà tendenzialmente capace di ripristinare la risposta fisiologica che il corpo mette in atto di fronte a condizioni che potrebbero soverchiare il suo funzionamento. Al contrario, in assenza di resilienza, sorgeranno più facilmente problemi di adattamento.
  • Una condizione pregressa di vulnerabilità renderà un evento stressante meno fronteggiabile e quindi più facilmente traumatico (e tendente a tradursi in sintomi); ciò è spesso esito di un attaccamento non responsivo e protettivo e o di una relazione precoce incoerente e contraddittoria con i caregivers.

In quest’ultimo caso, come scrive Herman, “la risposta ordinaria alle atrocità è di bandirle dalla coscienza”. Se infatti, come dicevamo, la potenza del trauma esonda rispetto alle risorse elaborative dell’individuo, egli percepisce un attacco al senso di sicurezza che genererà “una divisione del sé o della personalità del paziente in parti che hanno ognuna un proprio senso di sé e che sperimentano troppo o troppo poco” (G. Tagliavini). I pazienti traumatizzati tendono infatti a difendersi trovando una “fuga quando non c’è via di fuga” (Putnam, 1997) e portano nel corpo i segni degli eventi traumatici; si tratta di memorie emotive post-traumatiche che vengono però dissociate: emozioni intense e violente, traumatiche e corporeizzate, che Bromberg ha equiparato all’effetto di uno TSUMAMI poiché corrispondono a “un’inondazione di stati affettivi caotici tale che la mente non è in grado di elaborare attraverso i processi cognitivi” e tali da generare una profonda destabilizzazione del senso di Sé. Questa “ombra dello tsunami”/trauma si riattualizza continuamente nel presente e “tormenta la persona da quel momento in poi, ne depreda il presente e il futuro, soprattutto quando l’origine dello ‘tsunami’ si colloca nelle fasi precoci dello sviluppo individuale”.
Più grave è il trauma e più gravi saranno queste manifestazioni, le quali “possono potenzialmente colpire ogni area del funzionamento psicologico” (O. Van De Hart).

 

ATTENZIONE PERO’ A NON PATOLOGIZZARE TUTTO!

E’ sempre importante evitare diagnosi troppo facili e riduttivistiche. Le difese dissociative, infatti, non sono di per sé un fenomeno negativo, in quanto permettono di mantenere un equilibro psicosomatico in risposta a situazioni di stress (ad es., impediscono di essere travolti da emozioni particolarmente intense o dolorose).

Divengono patologiche quando si ricorre eccessivamente e in modo ricorrente ad esse, caso in cui è importante salvaguardare il proprio benessere chiedendo aiuto a dei professionisti qualificati!