Innanzitutto, cosa intendiamo per “Lutto”?

Si definisce “lutto” lo stato psicologico conseguente alla perdita di un oggetto significativo che ha fatto parte integrante dell’esistenza. Il lutto si caratterizza per la presenza di uno stato di intensa sofferenza non sempre facile da affrontare.
Il processo di fisiologica elaborazione del lutto può durare mesi, spesso circa 1 anno. Pensare di superare questa fase in poco tempo è irrealistico: il vuoto lasciato da una persona amata è una ferita profonda che per rimarginarsi necessita di tempo e cura! Quando il processo si prolunga e il vissuto luttuoso non si risolve spontaneamente, si parla di “lutto complicato”, caso in cui è molto importante chiedere aiuto a un professionista.

 

Nel 1970, la psichiatra Elisabeth Kübler-Ross

ha ideato un “modello a cinque fasi” che aiuta a comprendere le dinamiche mentali più comuni durante l’elaborazione del lutto proprio (es. per un malato terminale) e altrui (es. di un proprio caro):

  • Negazione/rifiuto – “Non posso crederci”, “Non sta succedendo davvero”; “Ma è sicuro, dottore, che le analisi siano esatte?”, “Non è possibile, si sbaglia!”. In questa fase, il paziente usa come meccanismo di difesa il rigetto della realtà e ritiene impossibile avere quella malattia. Il rifiuto della verità sul suo stato di salute può essere utile per proteggersi dall’ansia e per prendersi il tempo necessario a organizzarsi.
  • Rabbia – Successivamente, iniziano a manifestarsi forti emozioni come rabbia, paura e disperazione, espresse con domande come “Perché proprio a me?”, “Non è giusto!”, “Cos’ho fatto di male per meritarmi questo?”. Si tratta di una fase molto delicata dell‘iter psicologico e relazionale del paziente e dei suoi cari, che rappresenta spesso il momento di massima richiesta di aiuto, ma anche del rifiuto, della chiusura e del ritiro in sé.
  • Contrattazione/patteggiamento – La persona comincia una sorta di negoziato con se stessa e con chi la circonda; inoltre, cerca di valutare cosa può fare, come gestire la malattia e in quali progetti può investire la speranza: “Se prendo le medicine, crede che potrò...”, “Se guarisco, poi farò…”.
  • Depressione – Di solito si presenta quando la malattia progredisce e il livello di sofferenza aumenta; si inizia a prendere consapevolezza di quanto sta accadendo e si realizza che non è più possibile ribellarsi: la negazione e la rabbia vengono sostituite da un forte senso di sconfitta. Si distinguono in particolare due tipi di depressione:
    – una reattiva, conseguente alla presa di coscienza di quanto alcuni aspetti della propria identità, della propria immagine corporea, del proprio potere decisionale e delle proprie relazioni sociali siano andati persi;
    – una preparatoria, che ha un aspetto anticipatorio rispetto alle perdite che si stanno per subire.
  • Accettazione – Quando il paziente (o il familiare) ha elaborato quanto sta accadendo, sviluppa maggiore consapevolezza e accettazione della propria condizione; possono anche essere compresenti rabbia e depressione, seppur di intensità moderata. Il paziente tende a essere silenzioso e a raccogliersi; sono frequenti momenti di profonda comunicazione con chi gli sta accanto e di attenzione a quanto può essere sistemato (sia in senso pratico, sia in senso psicologico).
    E’ questo un momento fondamentale: “Gli uomini, quando diventano consapevoli della finitudine della propria esistenza, non chiedono grandi cose. Non cercano nuove ricchezze. Non vogliono più potere. Chiedono solo che sia loro consentito, nei limiti del possibile, di continuare a plasmare la storia del loro essere al mondo: chiedono di fare scelte, di mantenere i contatti con il prossimo secondo le proprie priorità” (A. Gawande).
    Penso ad esempio al film “Non è mai troppo tardi”, con Morgan Freeman e Jack Nicholson, due malati terminali che decidono di creare una “to do list” da attuare prima della fine della loro vita, lista che darà umanissimi risultati esistenziali.

 

So invero quanto sia difficile parlare così della morte.

La caducità umana è un argomento scomodo e disagevole! Come dicevo qui, oggi il pensiero dominante è volto al calcolo utilitaristico, NON alla riflessione critica, che è anzi vista come valore negativo e ancor di più se si riflette sul morire!

“Ma se fossimo vittime proprio del nostro rifiuto di accettare l’inesorabilità del ciclo vitale?
E se ci fossero invece approcci migliori, proprio lí, davanti ai nostri occhi, che chiedono solo di essere riconosciuti?”

In effetti, come afferma il mio amato Yalom (2017), “affrontare l’idea della morte […] può essere una awakening experience, un’esperienza di risveglio, una consapevolezza che conduce a una vita più piena. Anche l’esperienza della Kübler-Ross coi pazienti oncologici l’ha condotta a convincersi come la morte non sia la fine di tutto! A ciò si aggiunge “l’idea che possiamo lasciare qualcosa di noi” che possa “influenzare gli altri per anni, persino per generazioni […] proprio come i cerchi nell’acqua di uno stagno continuano a svilupparsi finché non sono più visibili, anche se il movimento continua a livello impercettibile”.

Questi “cerchi nell’acqua” lasciano “dietro di sé qualcosa dell’esperienza della propria vita, un qualche tratto, un frammento di saggezza, una guida, una virtù, una consolazione che viene trasmessa ad altri”: “una trasmissione silenziosa, gentile e immateriale che si attua da un individuo all’altro” (Yalom I., 2017).

Questo è il nostro compito mentre sostiamo accanto ai nostri pazienti che sperimentano il lutto: aiutarli a pensare la morte in modo “competente”, accettandone i limiti …e tutti i cerchi nell’acqua che essi possono meravigliosamente (inaspettatamente) generare!

 

P.S.: Trovate narrato qui un pezzetto della mia emozionante esperienza con i pazienti oncologici.