Non ci girerò intorno: l’attuale Pandemia da Covid-19 ci ha buttato fuori a calci dalla normalità e ha reso tutto più complesso.
Per lunghi periodi, è stato difficile o impensabile uscire dalla propria abitazione, impossibile vedere qualcuno fuori dagli schermi, complicato recarsi a fare la spesa, in farmacia per le prime necessità, a fare una passeggiata. Impossibile abitare serenamente la propria città, scuola, quartiere e vivere con soddisfazione se stessi e il mondo. Impossibile sviluppare una coerenza interna ed esterna, entro l’incoerenza socio-politica.
Su tutto, la dolorosa impossibilità di sentirsi “insieme”, “in contatto”. Siamo feriti dalla paura ed insieme dalla solitudine, lacerati dal desiderio dell’incontro e insieme dal terrore di esso. Rischiamo di immunizzarci dai legami, di considerare l’Altro il vero virus. La “crisi della presenza” è sempre più crisi.
Cosa rimane allora dell’Altro? Cosa resta dei suoi odori, della sua tridimensionalità, della sua soggettività? Non il corpo, non l’incontro, non l’inter-corporeo. …Fuori o dentro lo schermo è diverso? Stare in classe o in Dad è lo stesso? In ufficio o in smart-working… uguale? Spesa on line o con i rider: idem?
Non abbiamo risposte assolute. Ma è chiaro come il mondo si sia rimodellato sul coronavirus; “Corona-matrix” ha chiamato qualcuno questa neo-realtà. Il virus, infatti, si è posto come un nuovo organizzatore della vita umana e delle relazioni. Come un nuovo garante di sopravvivenzialità.
Ma, dobbiamo qui chiederci, che tipo di Cultura contiene questa nuova organizzazione?
Sicuramente, prevede la messa in discussione del senso di sicurezza nello stare nel mondo. Prevede inoltre una sempre più lesionata fiducia nell’Altro; non già fulgida da tempo, in era pandemica essa infatti è stata ulteriormente minata. L’Altro è diventato in questo anno e mezzo il principale veicolo di contagio: potenzialmente, l’Altro è il mio omicida e io il suo. Ma, dice Clara Mucci, “noi siamo corpi, e un corpo per svilupparsi ha bisogno dell’altro!”.
Come fare allora? Se il mondo e l’altro sono divenuti pericolosi, claustrofobici o agorafobici a seconda dei punti di vista… O comunque luoghi “fobici” per eccellenza (non più luoghi per eccellenza dell’umano, case dell’uomo)… come fare? Come ci “sviluppiamo” in questo contesto traumatico? Come poter stare insieme?
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Si sono sicuramente inaugurate varie “Relazioni da pandemia”, caratterizzate da tratti incoerenti, strumentali, incostanti; in esse, l’altro è spesso utile solo all’occorrenza e difficile è condividere l’intimità e decentrarsi dai propri bisogni.
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Resta inoltre un unico modo autorizzato per poter pensare l’incontro: quello “incorporeo” dell’on-line, in cui il sociale è sostituito dai social e il corpo dagli schermi. La “vecchia” realtà è stata sostituita da una neo-realtà che sa di irrealtà. E in questa neo-normalità siamo più “immagini” e “consumatori” che “abitanti dello spazio e del mondo”.
La clinica ci mostra come oggi le forme di ansia si moltiplichino e quanto sia più difficile in queste condizioni rasserenarsi e gestire le proprie preoccupazioni. Come mi raccontano i miei pazienti più giovani, spesso la paura, il vissuto di fragilità e di pericolo e la preoccupazione diventano depressione e o disperazione là dove non è possibile pensare alternative. Il futuro è tagliato, traumatico e depressivo. Siamo avvolti dal “cordoglio anticipatorio” della sua morte…
Quali ANTIDOTI dunque alla disconnessione totale da pandemia?
Quali al turbocapitalismo che, in assenza di altro, ci vuole distratti ad acquistare, a produrre, a consumare… e che per il resto ci rende anomici, stanchi, apatici?
Perché il Covid non è l’unica causa di ciò. Esso è piuttosto un amplificatore: Il virus è un’emergenza che rende visibili, emergenti, altri disagi già tipici di un’epoca in cui l’umano non è più al centro del mondo.
E tuttavia, io non voglio narrare “Cronache post-umane” in cui l’umano smette di esistere.
Voglio sollecitare l’idea che è vero: siamo stati buttati fuori a calci dalla normalità… Ma quale “normalità”? La rivogliamo, rivogliamo “LA normalità”, ciò che eravamo prima… Ma quella era davvero una “buona” normalità? Oppure ne possiamo costruire una nuova?
Io credo di sì. Voglio allora sollecitare la necessità di risignificare in un senso più generativo il reale, di ricordare che è possibile un altro mondo, un’altra dimensione ben più abitabile di quella attuale, che è possibile costruire alternative.