Psicologa a Palermo Noemi Venturella https://www.psicologa-noemiventurella.it Psicologa a Palermo Thu, 15 Aug 2024 11:55:25 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.5.15 https://www.psicologa-noemiventurella.it/wp-content/uploads/2020/04/cropped-favicon-venturella-psicologa-palermo-3-32x32.png Psicologa a Palermo Noemi Venturella https://www.psicologa-noemiventurella.it 32 32 “Trauma”: capiamoci qualcosa! https://www.psicologa-noemiventurella.it/psicopatologia/trauma-capiamoci-qualcosa/ https://www.psicologa-noemiventurella.it/psicopatologia/trauma-capiamoci-qualcosa/#respond Thu, 15 Aug 2024 11:55:25 +0000 https://www.psicologa-noemiventurella.it/?p=1838 La parola “trauma” è oggi entrata nell’uso comune, se non abusata. La buona abitudine, in questi casi, è sempre quella di provare a interrogare le parole per capire cosa contengono e utilizzarle in buona coscienza! Il termine deriva dal greco trayma, letteralmente “trafittura, perforazione”, ma anche “ferita”. Le esperienze traumatizzanti creano in effetti un turbamento [...]

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La parola “trauma” è oggi entrata nell’uso comune, se non abusata. La buona abitudine, in questi casi, è sempre quella di provare a interrogare le parole per capire cosa contengono e utilizzarle in buona coscienza!

Il termine deriva dal greco trayma, letteralmente “trafittura, perforazione”, ma anche “ferita”. Le esperienze traumatizzanti creano in effetti un turbamento dell’omeostasi psichica cui la mente reagisce difensivamente con una frattura tra parti del sé o della personalità.
Per citare qualche definizione clinica, per
Laplance e Pontalis “trauma psichico” è “un evento della vita della persona che è caratterizzato dalla sua intensità, dall’incapacità del soggetto di rispondervi adeguatamente, dalla viva agitazione e dagli effetti patogeni durevoli che esso provoca nell’organizzazione psichica”. Similmente, Selye collega il trauma alla mancata capacità di un soggetto di adattarsi alle situazioni della vita; e Tagliavini aggiunge come le dinamiche di traumatizzazione si basino sul modo unico e individuale con cui un individuo esperisce un evento, una serie di eventi o un insieme di condizioni durature nelle quali è sopraffatta la sua capacità di integrare la propria esperienza.

Ma cosa rende un evento potenzialmente traumatizzante un trauma vero e proprio in grado di far questo alla psiche di un individuo?

Per comprendere la dinamica di traumatizzazione, è sicuramente necessario indagare l’evento-cardine che può aver generato tale destrutturazione; tuttavia, ciò non è sufficiente!
A fronte di un evento potenzialmente traumatico, bisogna prendere in esame anche la storia e le caratteristiche personologiche della persona.

Tutti gli eventi stressanti, infatti, sono potenzialmente traumatizzanti; è la presenza di una SOGGETTIVITA’ più resiliente o più vulnerabile ad influire sul generare la dinamica di traumatizzazione!

  • Se il paziente è “resiliente”, ovvero possiede una serie di solide risorse (biologiche, emotive, psicologiche, relazionali, affettive, sociali, massimizzate da uno stile di attaccamento sicuro) in grado di attivarsi in situazioni più o meno stressanti legate alla sua sopravvivenza e al suo benessere, egli sarà tendenzialmente capace di ripristinare la risposta fisiologica che il corpo mette in atto di fronte a condizioni che potrebbero soverchiare il suo funzionamento. Al contrario, in assenza di resilienza, sorgeranno più facilmente problemi di adattamento.
  • Una condizione pregressa di vulnerabilità renderà un evento stressante meno fronteggiabile e quindi più facilmente traumatico (e tendente a tradursi in sintomi); ciò è spesso esito di un attaccamento non responsivo e protettivo e o di una relazione precoce incoerente e contraddittoria con i caregivers.

In quest’ultimo caso, come scrive Herman, “la risposta ordinaria alle atrocità è di bandirle dalla coscienza”. Se infatti, come dicevamo, la potenza del trauma esonda rispetto alle risorse elaborative dell’individuo, egli percepisce un attacco al senso di sicurezza che genererà “una divisione del sé o della personalità del paziente in parti che hanno ognuna un proprio senso di sé e che sperimentano troppo o troppo poco” (G. Tagliavini). I pazienti traumatizzati tendono infatti a difendersi trovando una “fuga quando non c’è via di fuga” (Putnam, 1997) e portano nel corpo i segni degli eventi traumatici; si tratta di memorie emotive post-traumatiche che vengono però dissociate: emozioni intense e violente, traumatiche e corporeizzate, che Bromberg ha equiparato all’effetto di uno TSUMAMI poiché corrispondono a “un’inondazione di stati affettivi caotici tale che la mente non è in grado di elaborare attraverso i processi cognitivi” e tali da generare una profonda destabilizzazione del senso di Sé. Questa “ombra dello tsunami”/trauma si riattualizza continuamente nel presente e “tormenta la persona da quel momento in poi, ne depreda il presente e il futuro, soprattutto quando l’origine dello ‘tsunami’ si colloca nelle fasi precoci dello sviluppo individuale”.
Più grave è il trauma e più gravi saranno queste manifestazioni, le quali “possono potenzialmente colpire ogni area del funzionamento psicologico” (O. Van De Hart).

 

ATTENZIONE PERO’ A NON PATOLOGIZZARE TUTTO!

E’ sempre importante evitare diagnosi troppo facili e riduttivistiche. Le difese dissociative, infatti, non sono di per sé un fenomeno negativo, in quanto permettono di mantenere un equilibro psicosomatico in risposta a situazioni di stress (ad es., impediscono di essere travolti da emozioni particolarmente intense o dolorose).

Divengono patologiche quando si ricorre eccessivamente e in modo ricorrente ad esse, caso in cui è importante salvaguardare il proprio benessere chiedendo aiuto a dei professionisti qualificati!

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Genitori: un “mestiere impossibile”? https://www.psicologa-noemiventurella.it/psicologo-psicologa-e-psicologia/psicologia-dello-sviluppo/genitori-un-mestiere-impossibile/ https://www.psicologa-noemiventurella.it/psicologo-psicologa-e-psicologia/psicologia-dello-sviluppo/genitori-un-mestiere-impossibile/#respond Sat, 27 Apr 2024 13:02:33 +0000 https://www.psicologa-noemiventurella.it/?p=1828 La Genitorialità può essere definita come un insieme di competenze complesse e in evoluzione che riguardano la capacità di prendersi cura e di proteggere un Altro al di fuori di sé. Un altro individuo che, per età, livello di sviluppo, condizioni fisiche e/o psichiche, necessiti di qualcuno in grado di leggere i suoi bisogni e [...]

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La Genitorialità può essere definita come un insieme di competenze complesse e in evoluzione che riguardano la capacità di prendersi cura e di proteggere un Altro al di fuori di sé. Un altro individuo che, per età, livello di sviluppo, condizioni fisiche e/o psichiche, necessiti di qualcuno in grado di leggere i suoi bisogni e di rispondervi in modo adeguato (ovvero in base alle sue caratteristiche specifiche).
L’articolazione della genitorialità dipende dal funzionamento di ogni singolo individuo (es.: storia, storia familiare, esperienze e fantasie preponderanti aspettative, ideali, etc.) e del suo contesto di riferimento (es.: caratteristiche della coppia e del mondo sociale, lavorativo, culturale).

Un bel seminario con Massimo Recalcati mi ha aiutato a trovare le parole migliori per scrivere sull’argomento.

Innanzitutto bisogna sottolineare che la genitorialità è una funzione necessaria alla vita! Entro essa, l’esercizio della funzione paterna e materna sono alternate, non derivano da un genere o da un singolo individuo, ma sono fondamentali entrambe! “Madre” e “padre”, infatti, sono funzioni (e NON incarnazioni personali): c’è una fluidità, una complessità che trascende il piano della determinazione biologica.
Il modo analitico di guardare alla famiglia prescinde infatti dall’idea che esista una famiglia naturale derivante da stirpe, sesso, genealogia, biologia. Il legame familiare è una costruzione sociale, familiare, culturale. Non ha le sue radici nel biologico!

Secondo Recalcati:

  • Il Materno è un’esperienza di decentramento finalizzata ad accogliere la cura del figlio. Esso prevede 3 funzioni principali:
     (1) Cura: il 1° atto di cura della madre è rispondere al grido del bambino; in questo, ella assume la funzione primaria del “soccorritore”, di colei che, col suo “eccomi!”, si mette a disposizione, offre la presenza di Sé per la cura dell’Altro.
    (2) Trasmissione del sentimento della vita: affinché la vita del figlio sia “vita viva”, accesa, soggettiva, è necessario che la madre desideri la differenza da sé del figlio e il futuro scioglimento del legame. Al tal fine, ella deve accettare di “partorire Dio”, ovvero un figlio che non è suo, sul quale non può esercitare padronanza; il sentimento del materno è infatti un’“ospitalità senza esercizio di proprietà”, una postura di donazione di sé che implica un decentramento e che non può essere dissociata dalla perdita. Quel famoso dare al figlio sia le radici che le ali per volar via verso la sua strada, insomma!
    (3) L’accoglienza verso il “figlio unico”: l’amore materno tutela l’unicità ed evita l’anonimità. ovvero rende la vita del figlio insostituibile e vede ogni figlio come “unico”; in questo senso, esso tutela il “segreto del nome” (Derrida), è “amore per il nome” (Lacan), e destina al figlio delle “cure particolarizzate”, specifiche, appunto uniche.
  • I principali compiti del Padre sono quelli di:
     (1) Separare: per Lacan, “il padre è un principio di separazione”, poiché la sua parola “sottrae il figlio dal servizio della madre”, evita che egli sia un oggetto consolatorio, di godimento, che completa l’essere della madre; con ciò, il padre restituisce al figlio, attraverso lo scioglimento del legame simbiotico, una potenziale indipendenza.
    (2) Trasmettere la sostanza, il senso della legge, ovvero che non tutto è possibile. Ciò esorbita le regole: il sentimento dell’impossibile non serve solo a disciplinare la vita del figlio, ma anche a inscrivere in lui la dimensione del desiderio; “compito della funzione paterna è unire (e non opporre) il desiderio alla legge” (Lacan). Difatti, testimoniando al figlio che la vita guidata dal desiderio unito al senso di realtà ha un senso e che può essere “ricca di vita”, il padre lo aiuterà a trovare la propria “vocazione”/scelta!

 

Facile? Affatto.
Spesso vedo genitori pervasi dai sensi di colpa e o di onnipotenza per i destini dei figli… E incontro figli schiacciati dalle aspettative o dall’assenza di presenza dei propri cari. Per ben cominciare a “curarsi” di tutto ciò, forse bisognerebbe accettare che, come diceva Freud, fare i genitori è un mestiere impossibile, nel senso che è impossibile non sbagliare! Per questo, quando in studio arrivano delle famiglie o dei singoli che parlano del loro essere figli o genitori, li invito sempre ad aprirsi alla tenerezza e ad un grosso lavoro di conoscenza della storia familiare. Ciò favorisce la comprensione del motivo per cui certe dinamiche si sono verificate e permette nel tempo di aprirsi all’Altro superando, con un po’ di ovvia fatica, le recriminazioni e i giudizi. Tuttavia, per farlo è necessario avere il coraggio di conoscere, ad esempio di riconoscere in sé e nella propria storia…

…le possibili criticità nell’esercizio della genitorialità.

 

Secondo Recalcati, ad esempio, per la maternità sono soprattutto 2:
 – Essa non si attiva o si disattiva laddove il padre non sia intervenuto a separare il bambino dalla madre o riveli una carenza di fondo nel creare questa separazione; può lì verificarsi straripamento “incestuale” del desiderio materno (che diventa cannibalico) e o dei desideri simbiotico-onnipotenti del figlio.
 – Derivano da una carenza della madre che non riesce a tenere insieme la funzione materna della cura e la funzione del proprio desiderio come donna. La relazione tra la madre e la donna può scompensarsi in una direzione o in un’altra: (a) Quando essere madre significa annientare e mortificare la donna, essa scompare in una madre che è “tutta madre” (per Lacan si tratta di un “coccodrillo cannibale che mangia la vita del figlio”). In questo caso, il bambino diventa prigioniero di quel mondo e perde il diritto alla separazione; al tempo stesso, anche il desiderio della donna è prigioniera di ciò e i due si divorano in definitiva a vicenda (Lacan). (b) Quando la donna fa fatica a contenere la madre: diventare madre è qui concepito come una perdita dell’essere donna che può generare un rifiuto inconscio del materno.

Le distorsioni del paterno si verificano soprattutto quando il padre non tiene insieme la legge e il desiderio e genera l’eclissi dell’uno o dell’altro, ad es. laddove cerchi di trasmettere la regola, la legge-dovere in assenza del desiderio e del senso della legge stessa.
Assistiamo oggi purtroppo ad un tempo del vuoto, dell’“evaporazione del padre” classicamente inteso (il padre del patriarcato). Si verificano così fenomeni attuali come eclissi del senso e del desiderio, trasgressioni, de-sostanzializzazione, interdizioni e perversioni della legge. L’angoscia oggi arriva spesso nel pensare il vuoto, la sua inconsistenza della legge, al pensiero che si può fare tutto, anche uccidere, e non succederà nulla. E’ allora necessario evitare il rifiuto dei padri e creare dei nuovi modi di incarnare il paterno che testimoni una nuova legge: quella frutto della consistenza e del senso della vita!

 

Buon lavoro!

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“Diventare Psicologo” (con parole di 10 anni fa!) https://www.psicologa-noemiventurella.it/psicologo-psicologa-e-psicologia/diventare-psicologo-con-parole-di-10-anni-fa/ https://www.psicologa-noemiventurella.it/psicologo-psicologa-e-psicologia/diventare-psicologo-con-parole-di-10-anni-fa/#respond Sun, 26 Jun 2022 11:45:07 +0000 https://www.psicologa-noemiventurella.it/?p=1815 Oggi ho ritrovato questo file con un compito svolto durante la specialistica. Rileggendomi, ho pensato alle giovani che mi hanno recentemente chiesto di svolgere in studio il loro tirocinio formativo e soprattutto ai miei giovani pazienti sfiduciati per il loro futuro. Ho pensato a quanto è dura trovar-si, ma anche a come valga sempre la [...]

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Oggi ho ritrovato questo file con un compito svolto durante la specialistica. Rileggendomi, ho pensato alle giovani che mi hanno recentemente chiesto di svolgere in studio il loro tirocinio formativo e soprattutto ai miei giovani pazienti sfiduciati per il loro futuro. Ho pensato a quanto è dura trovar-si, ma anche a come valga sempre la pena di incoraggiarli, di sperare e di lavorare su & con se stessi per riuscire!

E quindi ecco in dono un Pezzetto-Testimonianza della me lottatrice e determinata di 10 anni fa:

“A partire dallo stimolo “DIVENTARE PSICOLOGO”, ti chiediamo di scrivere un testo di 2-3 pagine: scrivi liberamente tutto quello che vuoi e che ti viene in mente, senza riflettere troppo su ciò che vuoi esprimere e senza preoccuparti degli aspetti formali del testo.”

“Credo avessi 13 anni, dovevo scegliere la scuola superiore e stavo attorno a un grande tavolo con la mia famiglia. Non so come fosse possibile, ma già allora dicevo convinta: “voglio andare al liceo classico perché mi apre la mente e poi voglio studiare psicologia!”. Mia madre non era convinta di questa mia impulsività pre-adolescenziale, ma non poté che assecondarmi.

Da quando ho memoria, ho sempre voluto diventare psicoterapeuta. Forse perché ho molto sofferto per un’infanzia un po’ tradita da genitori che i genitori non li hanno saputi molto fare. Non so, ero convinta in questo modo di poter capire cosa non era andato nella mia vita e di aiutare e di aiutami.

Non direi però che la proiezione sia stato l’unico motore di questa mia determinazione. C’è sempre stato dell’altro, una propensione al dialogo, all’ascolto, al giustizialismo etico, alla libera espressione ed alla conoscenza interpersonale, mentale, empatica. Da piccola soffrivo per chi subiva ed era solo.

Ora psicologa lo sono, “junior”, come dicono, e forse vale poco, ma al di là dei sogni caramellati di una bambina, credo di aver fatto la scelta giusta. Non mi sono mai pentita di aver imboccato questa strada, neanche quando ho smesso di studiare per qualche anno. In effetti è stato difficile, questo sì: 46 materie per una laurea triennale ed eventi di vita che ti scombussolano, che ti rendono per molti versi “altro da te” e dalle tue aspirazioni.

Ma alla fine ce l’ho fatta: sono regolarmente iscritta alla magistrale, dopo l’altra paura di perdere un altro anno non passando i test d’ingresso, dopo aver superato la paura di non riuscire a scambiare parole e pensieri con colleghi forse troppo piccoli rispetto a me. Dopo aver lavorato 2 anni a contatto con la sofferenza di ragazzi psichicamente “dis-abili” ed essere scesa a compromessi con un’istituzione (lo Stato) che non li garantisce; con una struttura comunale che perde continuamente le sue finalità a forza di avere a che fare con uno Stato che non li garantisce; con i naturali narcisismi dirigenziali frutto di questa epoca.

La tredicenne che voleva fare la psicologa è cresciuta: è diventata una ventinovenne sempre più convinta di diventare PSICOLOGA!

A volte ancora – pur essendo felice di studiare ciò che studio, di ascoltare ciò che ascolto e di lavorare a contatto con ciò che ho studiato e che continuo a studiare – mi chiedo: cosa vuol dire per me? Perché per me è così fondamentale? …Come se avessi ansia di illudermi, forse.

Non ho una risposta solo razionale. Credo davvero di essere partita da quella bambina sofferente, credo che lei sia dentro di me a spingermi ogni giorno ad avere chiare le idee, a pensare, a diventare una professionista ed una persona migliore.
Indubbiamente sono partita da quella bambina, sono lei, ma sono anche altro: quei vissuti, quelle consapevolezze, mi hanno portato ad emozionarmi e a ridestarmi ogni volta che mi rendo conto che posso migliorare una dinamica mia e altrui… ogni volta che sento che, se non facessi questo, sarei una persona meno utile e poco realizzata… ogni volta che imparo come funzioniamo, perché dimentichiamo certe cose, perché ne facciamo altre e come potremmo fare diversamente.

“Diventare psicologo” allora per me cosa è?

  • E’ tutto, nel senso che la mia persona si identifica con questo desiderio e con questa realtà, ed è felice all’idea di questo.
  • Ed è niente, perché credo che questa “identità di psicologo” sia da costruire ogni giorno. Ed è “niente” non in senso depauperativo, ma nel senso che è una sfida. Da affrontare quotidianamente, prima sui libri, poi con la ricerca e con i pazienti, se ne avrò. E inoltre sempre e comunque con la propria testa.

NON CREDO SIA FACILE, ma forse NON IMPORTA!
Mi sono sempre o quasi guadagnata ciò che ho, e questo mi è servito.

Ora il contesto ci fa credere (e magari è anche vero) che per noi sarà impossibile avere un lavoro, una pensione, esercitare la nostra professione; ci dice che non c’è spazio per noi, anche se i nostri libri.
I nostri professori ci dicono invece (e questo credo sia vero) che di spazio ce n’è tanto, ma sono lo Stato e la gente che non capiscono.

Io invece lo capisco: vedo che “l’ottusità” imperante produce gente afflitta, vuota, irrequieta, satura, bisognosa di parlare, di ritrovare o ricreare la propria reale interiorità, di risalire alla verità del proprio Sé.

Le resistenze sono tante. Ma sarebbe bello, quantomeno, far capire che un aiuto psicologico dà molto, aiuta quando sei perso, fa riscoprire risorse che forse neanche si credeva di avere.

Questa è una di quelle sfide che vale la pena combattere senza vergogna, perché non fa male a nessuno se io racconto che l’ho provato sulla mia pelle e che oggi sono qui (laureata ed in salute) probabilmente grazie ad un percorso di questo tipo. Non c’è vergogna a consigliarlo ed a farlo, ed essere/diventare psicologi oggi è anche questo:
– esplorarsi
– esplorare e spiegare
– superare certe censure morali/sociali che “uccidono”
– aiutare a capire quelli che per la gente sono vicoli…
– e trasformarli in possibilità
– guadagnarsi una fiducia non solo perché questo ci gratifica come singole persone, ma perché sai perfettamente che questo aiuterà anche chi te la dà, questa fiducia. Perché sai che con un semplice “atto” “emotivo” stai aiutando qualcuno e che questo qualcuno poi forse un giorno scoprirà che possiede quella chiave da “circolo virtuoso” per regalare questa stessa fiducia a qualcun altro
– …e così via.
[…]”

Dopo 10 anni, posso dire che SI PUO’! Posso dire con fierezza e com-mozione ai miei giovani pazienti che, pur soffrendo, si mettono in gioco per riuscire, che POSSONO!

 

Ad maiora semper, con fiducia realistica (:

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E se ti dicessi che il tuo Corpo parla? https://www.psicologa-noemiventurella.it/esempi-clinici/e-se-ti-dicessi-che-il-tuo-corpo-parla-2/ https://www.psicologa-noemiventurella.it/esempi-clinici/e-se-ti-dicessi-che-il-tuo-corpo-parla-2/#respond Sat, 05 Mar 2022 11:05:26 +0000 https://www.psicologa-noemiventurella.it/?p=1802 A cura della dott.ssa Dominga Gullì e della dott.ssa Noemi Venturella 1.3 L’Ansia Somatizzata L’ansia è tra i motivi più frequenti per cui è richiesto un aiuto psicoterapeutico; spesso, infatti, dopo averla rimandata per anni, l'ansia dice “BASTA!”. E’ questo il momento in cui i suoi sintomi si acuiscono e divengono sempre più forti e [...]

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A cura della dott.ssa Dominga Gullì e della dott.ssa Noemi Venturella

1.3 L’Ansia Somatizzata

L’ansia è tra i motivi più frequenti per cui è richiesto un aiuto psicoterapeutico; spesso, infatti, dopo averla rimandata per anni, l’ansia dice “BASTA!”. E’ questo il momento in cui i suoi sintomi si acuiscono e divengono sempre più forti e persistenti.

Per comprendere la potenza dei sintomi ansiosi, possiamo subito notare come lo stesso termine “Ansia” (che deriva dal greco “Anchein” e dal latino “Angere”, ovvero “stringere”, “soffocare”, “angosciare”) riporti a un concetto di sofferenza fisica, a un senso di oppressione, di soffocamento, di impossibilità a respirare. L’ansia infatti è tra i disturbi con i maggiori sintomi corporei, comportamentali ed emozionali: tremori, vertigini, difficoltà respiratorie, paure specifiche e/o generiche, preoccupazioni, palpitazioni, dolori al petto, sudorazione, nausea, addormentamento degli arti, confusione mentale, pensieri rimuginanti e ripetitivi, scarsa memoria dovuta alla difficoltà di concentrazione e simili.

L’Ansia è comune a molte situazioni di disagio psichico ed è soprattutto il sintomo fondamentale dei Disturbi d’Ansia (disturbo d’ansia da separazione, mutismo selettivo, agorafobia, ipocondria, fobie specifiche, disturbo d’ansia generalizzata, disturbo di panico, fobia sociale, disturbo d’ansia indotto da sostanze, disturbo d’ansia causato da altre situazioni mediche).

Può essere definita come un sentimento di tensione, apprensione e inquietudine che nasce dalla rappresentazione di un pericolo (reale o immaginario, oggettivo o soggettivo); esso è però anticipato e amplificato nei suoi effetti, che sono vissuti in modo minaccioso. Il soggetto ansioso, dunque, TEME ANTICIPATAMENTE qualcosa che non è ancora presente, ma che potrebbe forse accadere.

  • Per essere più precisi, l’ansia è comunque uno stato affettivo innato che ognuno sperimenta fisiologicamente nel corso della vita e che, entro certi limiti, svolge una FUNZIONE ADATTIVA, poiché favorisce la mobilizzazione delle risorse psichiche e fisiche più adeguate ad affrontare una situazione impegnativa.

  • Diviene espressiva di PATOLOGIA PSICHICA quando vi è un’elevata sproporzione tra reale pericolosità dello stimolo ansiogeno e intensità e durata della risposta ansiosa… Fino al grado  più elevato in cui l’ansia non è più in rapporto ad alcun evento esterno né a contenuti mentali coscienti. In questi casi la persona può convivere con due disagi importanti e imponenti:
    a) vive con un costante senso di allarmismo e prova una tensione di fondo, che si cronicizza nel tempo se non si cura;
    b) compie svariate rinunce per evitare di ritrovarsi in situazioni che scatenano sintomi e disagi.

Riportiamo di seguito due Casi Clinici a titolo di esempio:

1)  Giovanna

Giunge in terapia per un’ansia invalidante che la sta bloccando nelle relazioni sociali e soprattutto nel sostenere gli esami universitari. Sin da piccola ricorda una grande sofferenza nel fare verifiche a scuola, ansia che manifestava con rigurgiti fin dal giorno prima, insonnia e dolori gastrointestinali. G. è una giovane adulta intelligente, loquace e sensibile; tratti che ci consentono fin da subito di costruire una solida fiducia terapeuta-paziente. G. mi affida il suo blocco in varie aree esistenziali:

  • non ha un’ampia progettualità futura – se non superare gli esami e forse laurearsi – e fa dipendere tutto dalle scelte professionali del suo partner;

  • soffre di amenorrea (senza alcuna disfunzione organica);

  • c’è un’impossibilità comunicativa con i genitori;

  • ha difficoltà con gli esami universitari, che da tempo sono diventati un circolo vizioso: studia, poi due settimana prima dell’esame inizia la sintomatologia fisica che causa emicrania, disturbi intestinali e rigurgiti; arriva così senza energia al giorno dell’esame, tanto da non potersi reggere in piedi per recarsi all’università. Nei casi in cui riuscisse ad andare, ii momenti prima dell’esame sono caratterizzati da disturbi intestinali e attacchi di panico che la portano a scappare dall’edificio.

La vita di G. è immobile e angosciante. Tuttavia i nostri incontri sono estremamente piacevoli, autentici, intensi e ci consentono di entrare dentro il “blocco”. L’infanzia di G. è caratterizzata da una subdola e continua violenza psicologica, e talvolta anche brutalmente fisica, del suo caregiver, che la impaurisce perfino quando è assente! “Sei brutta, sei incapace, guarda quanto ti sei fatta grossa… Tuo cugino si è laureato! Guarda quel tuo compagno quant’è bravo all’università…”. G. è una figlia sbagliata e non meritevole di affetto e stima… come potrebbe concedersi di superare esami e interrompere questo circuito in cui ormai si identifica? Non può neanche scegliere i suoi vestiti quando insieme alla madre va a fare shopping perché “i vestiti li sceglie chi li paga”.

Durante le narrazioni emerse nello spazio di cura, G. scorge che la violenza rivolta a lei è consuetudine nel rapporto della sua coppia genitoriale e che la Madre presenta anomalie comportamentali con il cibo e con la cura del corpo. “Forse qualcosa che non va c’è… e non è solo in me… Ma come faccio?”. Così G. inizia a ribellarsi a quelle modalità genitoriali arrabbiandosi, raccontando la sua sofferenza e decidendo di andare a vivere insieme al compagno; inizia a desiderare di diventare un professionista competente nel proprio settore e a sperare che i suoi progetti possano incontrarsi con quelli del compagno. I primi passi verso l’autonomia! Pian piano G. riprenderà i contatti con gli amici e instaurerà una relazione più matura con i suoi genitori, riconoscendo i loro limiti e avvalorando la loro presenza. G. non teme più il confronto con l’Altro e inizia a costruire relazioni che la fanno star bene. Gli esami universitari non sono più vissuti come evento catastrofico ma come momento che si può affrontare… Il ciclo mestruale ritorna!
Il blocco e l’incastro in cui G. viveva non consentiva al suo corpo di esprimersi per ciò che era e conteneva. Oggi G. è una persona che è riuscita a liberarsi dall’abito che gli altri le avevano cucito addosso ed è riuscita a scegliere e a indossare l’abito che più desiderava!

 

2) Giusy

Arriva in terapia con sintomi ansiosi che raggiungono l’apice la notte: è insonne, il suo ritmo sonno-veglia è sfasato (soprattutto dall’inizio della pandemia) e la notte è preda di una fame vorace che la porta a mangiare anche cibi detestati. Racconta di una famiglia “nomade”, che ha seguito gli spostamenti lavorativi del papà trasferendosi altrove dopo la fine del liceo della sorella …ma a metà del suo. Sentirà questo transito come una sorta di  tradimento delle sue esigenze, che non riuscirà più a individuare. L’economia familiare è organizzata da una madre severa con l’idea ossessiva della dieta e della perfezione. G., in effetti, è a dieta fin da bambina e non ama le sbavature: puntuale, studentessa da 110elode, presenzialista, paziente da “mille grazie” e da pagamento in anticipo.

Nel corso della terapia, emerge chiaramente che G. è chiamata ad essere magra e perfetta in contrapposizione ad una sorella nata con difficoltà e cresciuta talmente protetta da sviluppare deficit socio-relazionali e un’obesità importante. G. deve compensare tutto questo, compiacere sua madre, non deluderla mai: si è mangiata le aspettative della mamma come si farebbe con un piatto di pasta. Qualsiasi spostamento da esse, genera disappunti aggressivi e ipercriticismo da parte della madre e forti sensi di colpa. L’Altro, insomma, la organizza, ma la consapevolezza su questo funzionamento è osteggiata da un forte meccanismo di negazione che la porta a reprimere ciò che pensa: “tutto bene, non ho nulla da dirle oggi”. Spesso, infatti, G. si difende ed è difficile farla lavorare analiticamente. Il suo corpo, però, si oppone a questa repressione e sviluppa una particolare dermatite che si esprime in corrispondenza di forti stress.

Dopo quasi 1 anno di terapia, G. compie finalmente una scelta in base a parametri personali: lavoriamo insieme sulla scelta della specialistica da frequentare, che sarà alla fine non quella più blasonata o dal lavoro sicuro (insegnante come la madre) o meno onerosa per i genitori… ma quella che più la entusiasma. Certo, è una scelta impegnativa e prestigiosa… Dopo la quale G. decide che ha raggiunto il massimo che poteva fare in questa fase della sua vita. Ora deve dedicarsi al 100% all’università o si sentirà in colpa per far spendere soldi inutili ai genitori e per non essere all’altezza dei colleghi e degli standard previsti dai docenti. Non può dedicare tempo alla terapia, non può piangere (non le piace), non può sostare sul dolore che prova per ciò che l’ha resa “Giusy”; non può più distrarsi! Bisogna interrompere la psicoterapia!

Come Curare i Disturbi d’Ansia?

L’ansia funziona come un campanello d’allarme che può portare la persona a rivalutare i propri conflitti interiori e se stessa. In questi casi, la psicoterapia è un valido strumento per giungere a un equilibrio migliore. 

Da ciò che abbiamo riportato negli esempi clinici, è possibile dedurre che la causa dei disturbi d’ansia è multifattoriale: fattori genetici, familiari-educativi e ambientali sono tutti equamente importanti e si rafforzano l’uno l’altro. Un percorso di psicoterapia aiuta a individuare la causa profonda dell’ansia e va poi a risignificarla e a rimodularla.

Poiché i disturbi d’ansia sono caratterizzati da risposte eccessive a situazioni che non costituiscono una reale minaccia, il lavoro terapeutico ha l’obiettivo generale di permettere alla persona di normalizzare e di gestire meglio le situazioni vissute con ansia, favorendo scelte di vita coerenti con il proprio benessere, riducendo il malessere e superando i limiti dati dai sintomi. Essa agisce sul funzionamento globale della persona, aumentando la conoscenza di sé (compreso il significato dei propri malesseri corporei!), la gestione delle emozioni e rendendola in definitiva più libera e forte. Mette così la persona in condizione di acquisire un maggiore livello di sicurezza in se stessa.

La conoscenza e consapevolezza dei propri meccanismi interni – sia psichici, che somatici – e la comprensione profonda dei motivi e dei momenti della storia di vita che hanno originato la sintomatologia ansiosa sono un risultato a lungo termine della psicoterapia che rappresenta un arricchimento in grado di migliorare la qualità di vita della persona.

Continueremo nei prossimi articoli ad approfondire queste forme di disagi.
Tali approfondimenti sono da considerarsi esemplificativi e, certamente, non esaustivi della complessità dell’espressione del disagio umano. Qualora ti sia ritrovato in una condizione simile a quelle qui descritte puoi scriverci o contattarci!

Dott.ssa Dominga Gullì e dott.ssa Noemi Venturella.

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Riferimenti Bibliografici:

 American Psychiatric Association (2014), Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali. DSM-5, Raffaello Cortina Ed., Milano;
 Barnhillhill J.W. (2014), Casi Clinici, Raffaello Cortina Ed., Milano;
 La Barbera D. (2003), Percorsi clinici nella psichiatria, Medical Book, Milano;
 Lingiardi V., McWilliam N. (2020), Manuale Diagnostico Psicodinamico PDM-2, Raffaello Cortina Ed., Milano.

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Settembre https://www.psicologa-noemiventurella.it/cura/psicoterapia/settembre/ https://www.psicologa-noemiventurella.it/cura/psicoterapia/settembre/#respond Fri, 03 Sep 2021 20:09:08 +0000 https://www.psicologa-noemiventurella.it/?p=1796 "Cosa vorresti fare da grande?” La prefazione di “Pappagalli verdi” di Gino Strada inizia con questa domanda. E' questa la lettura che mi ha accompagnato nelle ultime settimane di riposo estivo. E ancora mi accompagna verso lunedì, il primo lunedì di Settembre, giorno della ripresa ufficiale del lavoro in studio. Mi accompagna con frasi e [...]

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“Cosa vorresti fare da grande?”

La prefazione di “Pappagalli verdi” di Gino Strada inizia con questa domanda. E’ questa la lettura che mi ha accompagnato nelle ultime settimane di riposo estivo. E ancora mi accompagna verso lunedì, il primo lunedì di Settembre, giorno della ripresa ufficiale del lavoro in studio. Mi accompagna con frasi e immagini di uomini feriti e menomati dalla violenza dei loro simili… Perché, pur se in modo diverso, nei pre-colloqui di agosto ho visto anch’io scenari di guerre sociali e familiari; soprattutto, ho visto ragazzi schiacciati, inesplosi, esplosi, tormentati dai sintomi e saturi di sofferenza spesso inesprimibile. Tante le richieste di aiuto. Tante le lacrime.

Ancora, questo libro mi accompagna perché la domanda “Cosa vorresti fare da grande?” che lo apre contiene il progetto: il progetto di sé che spinge verso la crescita personale e il futuro in un momento storico in cui è difficile pensarsi al di là dell’attimo fuggente. Abbiamo bisogno di progetti!

Inoltre, Gino Strada me lo porto perché – nonostante rafforzi la costante (pre)occupazione analitica per ciò che va accadendo nel mondo e per chi e cosa vengo ad accogliere io stessa in studio – mi fa ricordare che io da grande volevo fare la psicoterapeuta. Volevo fare questo lavoro già a 12 o 13 anni, e il progetto a poco a poco ha preso forma. A un certo punto ho avuto chiaro che volevo farlo in un’ottica in cui “la psicoterapia consiste proprio, ed anche, nel far sì che gli individui apprendano ad essere cittadini, che una volta usciti dallo stato di paziente abbiamo acquisito un’auto-coscienza ed una consapevolezza tale da essere ora finalmente capaci di relazionarsi con se stessi e con gli altri in una forma basata sulla fiducia verso se stessi e gli altri, sull’altruismo attraverso cui rispecchiarsi negli altri e sostenerli e sulla democraticità come riconoscimento degli altri CITTADINI come loro”.

Oggi lo sono (psicoterapeuta) e sento la responsabilità, la meraviglia e la fatica di questo mestiere.

Fare questo lavoro significa per me, come dice Maurizio Andolfi, è “fare del proprio meglio per utilizzare le proprie parti migliori. Uso tutte le parti che ho: il mio lato bambino, il mio umorismo, la mia parte più seria, la mia esperienza , la mia voce, l’intuizione…. essere terapeuti: dal fare all’essere, dal fare terapia all’essere terapeuta che significa: usare se stessi completamente. Dare a se stessi il permesso di fare quello che si ritiene più utile ed efficace nella specifica situazione. Ci sei tu con te stesso e la tua esperienza….la scuola della vita, gli eventi della vita. introdurre nella scuola della vita delle famiglie un po’ di speranza, nuove energie, nuove possibilità… attraverso gli errori e i fallimenti…”.

E’ con questi sentimenti – uniti sempre alla bellezza del vedere e ri-vedere, dell’incontrare e re-incontrare, del costruire e del co-costruire – che mi approccio alla ripresa ufficiale del lavoro con i miei pazienti questo primo lunedì di Settembre.

Con me porto questo libro perché so bene che io da grande volevo fare la psicoterapeuta, anche in mezzo alla sofferenza e alle guerre interne ed esterne. E perché anch’io, mentre non mi tiro indietro, “Spero solo che si rafforzi la convinzione […] che le guerre, tutte le guerre sono un orrore. E che non ci si può voltare dall’altra parte, per non vedere la facce di quanti soffrono in silenzio” (Gino Strada).

I tempi delle palingenesi rivoluzionarie assolute e totalizzanti sono finiti, ma ci sono luoghi di rivoluzione nei posti più impensati” (Moni Ovadia).

Buon lavoro a tutti!

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BIBLIOGRAFIA

Andolfi M. (2014), Teacher in the School of Life, in Insegnante nella Scuola della Vita (2014) – IMDb

Strada G. (1999), Pappagalli verdi. Cronache di un chirurgo di guerra, Feltrinelli, Milano.

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Psiche E’ mondo Sociale https://www.psicologa-noemiventurella.it/psicopatologia/psiche-e-mondo-sociale/ https://www.psicologa-noemiventurella.it/psicopatologia/psiche-e-mondo-sociale/#respond Wed, 11 Aug 2021 14:47:02 +0000 https://www.psicologa-noemiventurella.it/?p=1784 “Il sociale […] penetra l’essenza più interna della personalità individuale” (S. Foulkes). Proprio ieri commentavo di come alcuni fatti “sociali” ci riguardino direttamente come psicoterapeuti. Sempre ieri, infatti, accadeva che l'ente preposto alla raccolta di rifiuti ingombranti del mio comune non abbia rispettato l'appuntamento di ritiro e che dei concittadini abbiano cercato di rendere una [...]

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Il sociale […] penetra l’essenza più interna della personalità individuale”
(S. Foulkes)
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Proprio ieri commentavo di come alcuni fatti “sociali” ci riguardino direttamente come psicoterapeuti. Sempre ieri, infatti, accadeva che l’ente preposto alla raccolta di rifiuti ingombranti del mio comune non abbia rispettato l’appuntamento di ritiro e che dei concittadini abbiano cercato di rendere una discarica personale il punto di raccolta concordato, ché l’importante è che i rifiuti siano lontani dalle loro dimore (ma poco importa se vicino a quelle altrui). …Come ciò possa riguardare la psicoterapia è forse poco intuitivo, ad uno sguardo superficiale. In realtà, è per me fondamentale pensare come la natura della mente umana sia gruppale, sociale!

Il gruppo, diceva Foulkes, è la matrice della vita mentale dell’individuo!

Motivo per cui tali accadimenti mi riguardano come cittadina ed anche come professionista della cura. Ma come ciò entra nella stanza di terapia con me e i miei pazienti? Andiamo con ordine.

Partiamo dal dire col mio professore Girolamo Lo Verso che la “storia” e la personalità di ognuno sono co-costruite da tutti gli elementi del campo micro e macro-gruppale in cui egli “esiste”:

“La soggettività ha inizio ed evolve all’interno delle relazioni transpersonali individuo-famiglia-collettivo”.

Esiste infatti una sorta di matrice sovra-personale e sovra-ordinata rispetto al singolo che definisce il rapporto di ciascuno col mondo. In gruppoanalisi la chiamiamo “transpersonale” (S. Foulkes; letteralmente “oltre il personale”), proprio per sottolineare che essa va “oltre”, “oltrepassa” (dal latino “trans”) il livello del singolo individuo. Nello specifico, il termine indica come i processi gruppali e le esperienze collettive (passate e presenti) che essi contengono possiedano la qualità di “passare attraverso” gli individui, permeandone il mondo interno e le personalità.

Per dirla senza tecnicismi, il transpersonale è quella “storia” e “cultura” collettiva che fonda la nostra identità più intima senza che il nostro livello cognitivo riesca a concettualizzarla. Esso è infatti un fenomeno inconscio: l’individuo è inconsapevole della sua fondazione sociale! Al contrario, ritiene di essere un soggetto assolutamente singolare ed originale.

Per i nostri pazienti è in effetti difficile pensare che i loro problemi siano collegati alle dinamiche politiche, alle questioni climatiche, ai valori economici.

  • “Dice davvero dottoressa? Io sto male anche perché esiste Salvini che mostra che si può fare e dire tutto?” o “perché c’è un’etica della realizzazione perfezionistica e competitiva per cui o sono perfetto o sono fallito?”.
  • “E come influisce questo sistema politico nella mia incapacità di pensare a chi sono?”.
  • “Che c’entra il regime economico attuale con la mia inadeguatezza di madre?”.
  • Secondo lei sono così stressato perché non posso non pensare solo al lavoro e se dovessi pensare ad altro non ci sarebbe oramai più niente? Ma tutti quelli che conosco sono così…”.
  • “E mi scusi, ma se io a 46 anni ho sentito il desiderio di avere un figlio e oramai non ci riesco, perché dobbiamo chiederci da dove viene il problema? Non è tutto solo dentro di me?”.
  • “…Ah quindi somatizzo anche perché in questo sociale c’è uno spazio poco edificante per le emozioni negative? E il fatto che io non mi fidi più del mio prossimo potrebbe essere collegato all’idea di ‘distanziamento sociale salvifico’ indotta dalla pandemia?”.
  • “…Non ci credo proprio! …Cioè, la mia identità dipenderebbe dagli altri?!?”.

Frequenti sono frasi simili o stupite riflessioni vicine a questi esempi di fantasia.

Per molti di coloro che frequentano i nostri studi, i codici attuali, le appartenenze, i regimi economici e mediatici, le culture… non sono collegati ad es. agli attuali valori competitivi, alle nuove inadeguatezze sociali, ai desideri iperprestazionali, visuali, goderecci e di controllo totalitario. Una paziente, partecipando contemporaneamente a 7 o 8 concorsi, diceva: “sono in tranche agonistica, non posso essere stanca!”. Certo, la norma prevede che stiamo sempre sul pezzo, che la cultura e la formazione siano tra le nuove lobby da abbracciare (insieme alle aziende di tamponi), che non ci fermiamo mai, che stiamo sempre a macinare-macinare-macinare: cibi, abiti, soldi, sostanze varie, vacanze top, culture prêt-à-porter, tapis roulants, master, lavori e corpi da vetrina 7 su 7 e 18 ore su 24. Tutto “normale”, attuale, culturale. Non c’è possibilità che non lo si regga (“se non mi laureo in tempo, non importa il motivo, significa che non sono normale!”, dice F.)… Ed ecco che sorge il mal-essere!

Nel lavoro clinico assistiamo infatti alla dolorosa esplosione di solitudini, disturbi d’ansia, impossibilità a sentirsi adeguati, di neo-famiglie disequilibrate, di relazioni sfilacciate e o violente, di disturbi psicosomatici muti, di personalità fragili o, al contrario, borderline e narcisistiche alla ricerca dello sfruttamento dell’altro e del godimento… per dirne solo alcune. La patologia psichica, d’altronde, segue l’evolversi dei tempi.

Nostro compito di curanti è quindi anche interrogare il mondo che viviamo e chiederci con i nostri pazienti come non solo la famiglia d’origine, ma anche questi sistemi micro e macro-sociali interferiscano col benessere, con la salute psichica. Infatti, se il gruppo è la matrice della vita mentale, anche la salute e la malattia appartengono alla rete relazionale dell’individuo e non unicamente al singolo.

Nel cercare di alleviare il mal-essere dei nostri pazienti, è dunque fondamentale adottare uno “sguardo” circolare e non riduzionistico sui fenomeni umani. Importante comprendere da dove vengano certi modi di stare nel mondo, certi valori e certe sofferenze, e aiutare così i nostri pazienti stessi a comprendere ciò che esiste già ed a cambiarlo in funzione del ben-essere.

E’ vero infatti: “ὁ ἄνθρωπος φύσει πολιτικὸν ζῷον”: “L’uomo è per natura un animale sociale” (Aristotele). Esiste un solidissimo e continuo ponte tra individualità e collettività. L’una sta nell’altra e viceversa, perciò non curiamo nulla senza curare anche l’altra!

Per questo, occuparci dell’Altro, del mondo sociale, dei concittadini che inquinano e incendiano il mondo, significa per noi fare clinica e psicologia in modo complesso!

 

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BIBLIOGRAFIA

Giannone F., Lo Verso G. (1999), “Il self e la polis, il sociale e il mondo interno”, Franco Angeli, Milano

Foulkes S. H. (1976), “La psicoterapia gruppoanalitica. Metodi e prinicipi”, Astrolabio, Roma

Lo Verso G., Di Blasi M. (2011), “Gruppoanalisi soggettuale”, Raffaello Cortina, Milano.

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E se ti dicessi che il tuo Corpo parla? https://www.psicologa-noemiventurella.it/psicopatologia/e-se-ti-dicessi-che-il-tuo-corpo-parla/ https://www.psicologa-noemiventurella.it/psicopatologia/e-se-ti-dicessi-che-il-tuo-corpo-parla/#respond Tue, 06 Jul 2021 17:36:21 +0000 https://www.psicologa-noemiventurella.it/?p=1776 A cura della dott.ssa Dominga Gullì e della dott.ssa Noemi Venturella 1.1. Il Corpo come Sintomo   “Le malattie che sfuggono al cuore divorano il corpo” (Ippocrate) “Cosa la porta qui?”. Sempre più frequentemente, i nostri pazienti arrivano in psicoterapia rispondendo a questa domanda inaugurale con la descrizione di malesseri corporei o con segni di [...]

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A cura della dott.ssa Dominga Gullì e della dott.ssa Noemi Venturella

1.1. Il Corpo come Sintomo

 

“Le malattie che sfuggono al cuore
divorano il corpo”
(Ippocrate)

“Cosa la porta qui?”. Sempre più frequentemente, i nostri pazienti arrivano in psicoterapia rispondendo a questa domanda inaugurale con la descrizione di malesseri corporei o con segni di più o meno chiare somatizzazioni.

L’uomo, d’altronde, “ha un corpo”, nel senso che attraverso esso fa l’esperienza della vita in modo concreto e tangibile, ed “è un corpo”, nel senso che i suoi gesti quotidiani si susseguono in automatico, come espressione del suo stesso essere, ovvero senza la consapevolezza di come essi si realizzano somaticamente.

Per noi psicoterapeuti, attenzionare il livello corporeo è fondamentale. E ciò non solo per le derive di una “civiltà dell’immagine” che induce più visualizzazioni, corpi in primo piano e voyerismi che pensieri. Ma soprattutto poiché, come dice Carotenuto, “il corpo non può mentire!“. “Non esiste migliore espressione di un’anima ferita del suo corpo”.
Questa ferita, infatti, è spesso muta, ma ci dà indizi di sé attraverso corpi tagliati, deformati da una alimentazione carente o eccessiva, asfissiati dall’ansia, costellati da dermatiti senza chiare cause organiche. O ancora, da sguardi concentrati su parti del corpo proprie e altrui, da attenzioni focalizzate su aspetti somatici, muscoli, selfie… piuttosto che sulla vita. Spesso, anche da una iper- o ipo-sessualità tutta corporea che esclude il piacere profondo e nutriente del vero incontro.

A seguito di un intenso confronto su questo tipo di pazienti che sempre più spesso ci capita di prendere in carico, abbiamo allora pensato di approfondire il rapporto mente-corpo con esempi clinici, teorie, percorsi di cura e spiegazioni. Questo, con l’obiettivo di facilitare nei nostri lettori l’individuazione di un malessere che necessita di cura e delicatezza e che, invece, oggi viene spesso sottovalutato fino alle più gravi conseguenze.

 

Noi riteniamo che il corpo parli e che pertanto vada ascoltato!

Come scrive Carotenuto, “La creazione artistica del corpo è un’attività prodigiosa, che riassume in sé tutta la complessità della psiche umana. Dalla proiezione alla sublimazione, esso diventa il riflesso dell’anima: la sua voce silente” (A. Carotenuto, 2002). Bisogna quindi imparare ad ascoltarla!

 

Una ulteriore complessificazione: l’Effetto-Pandemia

Come dicevamo anche qui, l’attuale pandemia da Covid-19 ha ulteriormente contribuito alla corporeizzazione del malessere, re-introducendo la fragilità e il pericolo di ammalarsi entro un sistema culturale fondato sulla rimozione della vulnerabilità umana. L’emergenza che tutti ci siamo ritrovati ad attraversare ha implicato un complesso e repentino cambiamento delle abitudini e dei ritmi di vita dell’intera società; il profilarsi di scenari incerti dove paure e speranze si avvicendano, ha generato, oltre allo stravolgimento del vivere quotidiano, una condizione di instabilità psichica. Un impatto che va aldilà del contagio virale; un impatto che coinvolge il contagio emotivo e che va a colpire l’equilibrio psicofisico di ognuno. L’obbligatorietà dello stare in casa ha inoltre implicato un maggiore contatto con se stessi e con l’impossibilità di agire con le solite fughe (tempi veloci, iper-produttivi, assenza di tempi “morti”) …che in alcuni casi si sono rivelati non sostenibili per le persone.

“Il corpo, non più strumento e condizione piena dell’umana immersione sensoriale nel mondo (A. Le Breton, 2007) e nella sua socialità, è diventato in questo tempo straordinario di crisi sanitaria, prima di ogni altra cosa, “luogo della vulnerabilità” (A. Le Breton, 2020), spazio della minaccia e del rischio, perché la malattia e la morte sono state percepite come in agguato, pronte a colpire nella forma invisibile di un virus che ha stravolto il mondo e che si trasmette nel contatto tra gli esseri umani” (E. Zito).

 

Cosa fare quando c’è uno (o più) sintomi corporei?

Il corpo è il primo tramite essenziale nella relazione sé-altro; in quanto tale, i suoi sintomi sono da considerarsi come peculiari espressioni – a livello corpo-mente-cervello – degli affetti che hanno superato la soglia dello stress grave e che pertanto si esprimono in una forma di dis-regolazione neurobiologica che attacca direttamente il soma (colpendo organi, nervi, pelle o con malattie del metabolismo e del sistema immunitario oppure turbando funzioni come sonno, digestione, battito cardiaco, pressione sanguigna, etc.).

I sintomi corporeizzati sono il risultato di uno “stress cronico emotivo persistente” che danneggia i tessuti o colpisce gli organi-bersaglio, cioè quelli che probabilmente già presentavano una vulnerabilità o familiarità, la cui causa comunque rimane la costante disregolazione affettiva creata da traumi relazionali precoci, rinforzata poi probabilmente dalle future relazioni negative e dagli eventi stressanti.

In queste Persone il sintomo spesso si stabilisce allo scopo di interrompere il collegamento emotivo con il dolore psichico, che viene così lasciato NON elaborato.

Questo però non è un processo di cura! La Persona vive comunque grandi difficoltà psichiche e forti sofferenze che troveranno remissione solo all’interno di un Percorso Psicoterapeutico che – con uno sguardo attento, analitico, che sa come guardare, esplorare, chiedere senza recare ulteriore “oltraggio” a quanto di sacro e protetto contengono questi indizi di sofferenza – possa re-iscrivere la persona in una nuova storia relazionale (C. Mucci, 2018).

 

Nei prossimi articoli approfondiremo ulteriormente queste problematiche.
Potete continuare a leggerci o a scriverci qualora vi siate ritrovati nelle situazioni qui introdotte!

 

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Bibliografia

Carotenuto A., Il gioco delle passioni, 2002
Anzieu D., L’Io pelle, 2017
Mucci C., Corpi Borderline, 2020
McDougall J., I teatri del corpo, 1990
Trombini G., Baldoni F., Psicosomatica, 1999
Zito E., Corpo, isolamento sociale e fatica digitale in tempi di pandemia, 2020, Narrare i gruppi.

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L’ardua impresa dell’Adolescenza https://www.psicologa-noemiventurella.it/esempi-clinici/lardua-impresa-delladolescenza/ https://www.psicologa-noemiventurella.it/esempi-clinici/lardua-impresa-delladolescenza/#respond Sun, 13 Jun 2021 15:29:26 +0000 https://www.psicologa-noemiventurella.it/?p=1767 Ogni adolescenza coincide con la guerra che sia falsa, che sia vera Ogni adolescenza coincide con la guerra che sia vinta, che sia persa (Tre allegri ragazzi morti). Il momento adolescenziale costituisce uno snodo verso la dimensione adulta. Come esprime l'origine della parola (da “adolescere”, crescere, e da “alĕre”, nutrire), l’adolescenza è un periodo di [...]

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Ogni adolescenza coincide con la guerra che sia falsa, che sia vera
Ogni adolescenza coincide con la guerra che sia vinta, che sia persa

(Tre allegri ragazzi morti).

Il momento adolescenziale costituisce uno snodo verso la dimensione adulta. Come esprime l’origine della parola (da “adolescere”, crescere, e da “alĕre”, nutrire), l’adolescenza è un periodo di grande variabilità, mobilità, fluidità. E’ un momento in cui il confluire del biologico, dello psichico e del sociale impongono al giovane un transito maturativo dal paradiso degli amori infantili, dove non occorre scegliere e rinunciare alla megalomania, all’età adulta; su di esso graveranno la storia dei genitori e la loro cultura sociale.

In quest’ottica, l’adolescenza non è solo un’età della vita; essa è un’esperienza i cui effetti vanno al di là della prima giovinezza.

E’ infatti il punto da cui può strutturarsi la patologia, ma anche la possibilità che il soggetto si organizzi per approdare funzionalmente all’età adulta.

Negli anni dell’adolescenza, il cambiamento fisico è rapido, sconvolgente e appariscente: il giovane nota ogni giorno nuovi segnali del suo divenire un individuo adulto. Ma per divenire davvero adulto, l’adolescente deve assolvere a complessi compiti di sviluppo:

  • deve raggiungere gradualmente l’indipendenza dai genitori;

  • accettare i cambiamenti tumultuosi del proprio corpo e adattarsi alla maturazione sessuale;

  • stabilire buoni rapporti di collaborazione tra i coetanei;

  • elaborare una propria filosofia di vita e un senso di identità personale.

Pertanto, l’adolescenza è anche un periodo di lutto per l’infanzia ed una seconda fase di separazione-individuazione dai genitori, le cui metamorfosi possono anche essere traumatiche. La pubertà crea infatti uno sconvolgimento dei punti di riferimento e del modo di pensare e conoscere il mondo.

La strada che l’adolescente dovrà percorrere prevede un transito dall’area familiare agli spazi esterni. Il lavoro dell’adolescenza procede infatti attraverso continue articolazioni tra passato e presente, dentro e fuori, vecchie e nuove identificazioni, permanenza e cambiamento. Meltzer lo descrive come il partecipare dell’adolescente, al tempo stesso, a 4 diverse comunità separate:

  1. comunità dei pari;

  2. comunità degli adulti;

  3. famiglia e suo essere bambino;

  4. isolamento (megalomania e onnipotenza).

In quest’ottica, un adolescente non è realmente ancorato in nessun posto (Meltzer); è in continuo movimento tra le diverse comunità perché il processo di crescita gli procura tanto dolore che egli può tollerarlo solo per un po’.

In questo viaggio, l’adolescente ricerca il sostegno degli adulti, ha come compagno il piccolo gruppo e come equipaggiamento il suo corpo.

Attraverso il suo nuovo corpo, egli può visualizzare la misura del suo progressivo cambiamento e dimostrare ciò che è in grado di fare; ma deve imparare a gestire la propria trasformazione e le proprie fantasie aggressive e distruttive. Di fronte allo scompiglio interno ed esterno, alle regressioni, alla confusione, ha perciò bisogno di adulti competenti che lo aiutino a riorganizzare il proprio mondo interno. L’adolescente si rivolge così allo sguardo dei suoi caregivers per scorgere l’effetto dell’impresa che sta compiendo; inoltre, ha bisogno di essere ammirato mentre si allontana.

Se la distanza tra il familiare e l’estraneo è avvertita come incolmabile, egli può mettere a rischio la nascita della propria identità. Per questo e per molti altri motivi, l’adolescenza di un figlio è un passaggio evolutivo critico per tutta la famiglia.

OGGI

L’adolescente di oggi incontra maggiori difficoltà nel processo di identificazione poiché privato di punti di riferimento stabili e flessibili: rituali di iniziazione socio-culturali, credenze condivise dai gruppi di riferimento, stabilità familiare.

Non a caso, nei nostri studi arrivano sempre più spesso giovani pazienti con disturbi comportamentali e personologici profondi. In queste patologie, la strategia difensiva consiste nello spostare all’esterno e, quindi sul sintomo, le esigenze interne, stabilendo, quindi, relazioni con oggetti sostitutivi più controllabili e garantendosi così un equilibrio psichico. L’effetto finale sarà un sintomo, ad es.:

  • comportamenti difensivi che vanno verso la noia, l’indifferenza, l’anestesia emozionale;
  • il ritiro su di sé (si parla sempre più spesso oggi di Hikikomori) o su oggetti sostitutivi facilmente padroneggiabili (droghe, cibo, corpo, agiti e varie altre anomalie della condotta).

In questi casi, il sintomo acquista un potere organizzatore sulla personalità e diviene il condensato attorno al quale l’individuo crea le sue relazioni e la sua interiorità, impoverendole.

Il caso di Gaia

Gaia (nome di fantasia) arriva in studio coi genitori e con una lunga lista di sintomi. E’ esile eprorompente allo stesso tempo, con delle forme che dominano lo spazio e, dice, ingombrano la mente. Non ha mai accettato il suo corpo come non lo hanno accettato gli altri; in effetti, è bullizzata fin dalla prima pubertà per via di una sviluppo fisico stupefacente, cui si accompagnava invece una grande ingenuità. La sua insicurezza di base si è trasformata nel tempo in sintomi somatici (deperimento, depressione immunitaria, etc.) e in paura a causa di contesti scolastici iper(s)valutanti e aggressivi, accompagnati da relazioni intime a tratti abusanti. Mentre gli adulti di riferimento erano impegnati nelle loro vicende personali (malattie, lutti, workaholisme), Gaia si dimenava come poteva in mezzo a tutto questo, arrivando ai 20 anni con sintomi ansiosi, ritiro relazionale e necessità di controllo che permeano la sua vita. E’ estremamente intellettualizzante, iper-adultizzata, curante verso gli altri, con uno spiccato desiderio di giustizia e di etica che sfoga sui social. Ma è anche fragile, sola, atterrita da ogni cambiamento. Come potrebbe crescere e diventare la giovane donna dotata che intravedo in lei, se restasse prigioniera dei suoi malesseri?

Questi sintomi vanno ascoltati e ben attenzionati. Il desiderio di vivere che anima la parte sana di Gaia la porta in terapia e a spoilerare a poco a poco le proprie difficoltà. Insieme, possiamo lentamente vedere come i suoi sintomi siano preziose comunicazioni che nascondono ciò che lei non può accettare, i suoi conflitti interni, le sue debolezze, le sue paure, le difficoltà che ha con le sue figure fondamentali.

In questi casi, è necessario ripercorrere a ritroso la strada che collega i sintomi ai conflitti interiori con la guida di un adulto di riferimento; e ciò al fine di aiutare l’adolescente a sviluppare la capacità di gestire il suo nuovo Sé senza averne una paura schiacciante. Per farlo, egli ha bisogno di adulti in grado di sostenerlo e per aiutarlo a coltivare autonomamente la sua nascente soggettività!

Dobbiamo essere una base sicura da cui il paziente possa esplorare i diversi aspetti infelici e dolorosi della sua vita, molti dei quali trova impossibile riconsiderare senza un compagno di cui abbia fiducia e che gli fornisca sostegno, incoraggiamento, comprensione e che, nel caso, faccia da guida. (J. Bowlby).

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Gli effetti della Pandemia https://www.psicologa-noemiventurella.it/psicologo-psicologa-e-psicologia/gli-effetti-della-pandemia/ https://www.psicologa-noemiventurella.it/psicologo-psicologa-e-psicologia/gli-effetti-della-pandemia/#respond Sun, 16 May 2021 19:42:39 +0000 https://www.psicologa-noemiventurella.it/?p=1759 Non ci girerò intorno: l'attuale Pandemia da Covid-19 ci ha buttato fuori a calci dalla normalità e ha reso tutto più complesso. Per lunghi periodi, è stato difficile o impensabile uscire dalla propria abitazione, impossibile vedere qualcuno fuori dagli schermi, complicato recarsi a fare la spesa, in farmacia per le prime necessità, a fare una [...]

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Non ci girerò intorno: l’attuale Pandemia da Covid-19 ci ha buttato fuori a calci dalla normalità e ha reso tutto più complesso.

Per lunghi periodi, è stato difficile o impensabile uscire dalla propria abitazione, impossibile vedere qualcuno fuori dagli schermi, complicato recarsi a fare la spesa, in farmacia per le prime necessità, a fare una passeggiata. Impossibile abitare serenamente la propria città, scuola, quartiere e vivere con soddisfazione se stessi e il mondo. Impossibile sviluppare una coerenza interna ed esterna, entro l’incoerenza socio-politica.

Su tutto, la dolorosa impossibilità di sentirsi “insieme”, “in contatto”. Siamo feriti dalla paura ed insieme dalla solitudine, lacerati dal desiderio dell’incontro e insieme dal terrore di esso. Rischiamo di immunizzarci dai legami, di considerare l’Altro il vero virus. La “crisi della presenza” è sempre più crisi.

Cosa rimane allora dell’Altro? Cosa resta dei suoi odori, della sua tridimensionalità, della sua soggettività? Non il corpo, non l’incontro, non l’inter-corporeo. …Fuori o dentro lo schermo è diverso? Stare in classe o in Dad è lo stesso? In ufficio o in smart-working… uguale? Spesa on line o con i rider: idem?

Non abbiamo risposte assolute. Ma è chiaro come il mondo si sia rimodellato sul coronavirus; “Corona-matrix” ha chiamato qualcuno questa neo-realtà. Il virus, infatti, si è posto come un nuovo organizzatore della vita umana e delle relazioni. Come un nuovo garante di sopravvivenzialità.

Ma, dobbiamo qui chiederci, che tipo di Cultura contiene questa nuova organizzazione?

Sicuramente, prevede la messa in discussione del senso di sicurezza nello stare nel mondo. Prevede inoltre una sempre più lesionata fiducia nell’Altro; non già fulgida da tempo, in era pandemica essa infatti è stata ulteriormente minata. L’Altro è diventato in questo anno e mezzo il principale veicolo di contagio: potenzialmente, l’Altro è il mio omicida e io il suo. Ma, dice Clara Mucci, “noi siamo corpi, e un corpo per svilupparsi ha bisogno dell’altro!”.

Come fare allora? Se il mondo e l’altro sono divenuti pericolosi, claustrofobici o agorafobici a seconda dei punti di vista… O comunque luoghi “fobici” per eccellenza (non più luoghi per eccellenza dell’umano, case dell’uomo)… come fare? Come ci “sviluppiamo” in questo contesto traumatico? Come poter stare insieme?

  • Si sono sicuramente inaugurate varie “Relazioni da pandemia”, caratterizzate da tratti incoerenti, strumentali, incostanti; in esse, l’altro è spesso utile solo all’occorrenza e difficile è condividere l’intimità e decentrarsi dai propri bisogni.

  • Resta inoltre un unico modo autorizzato per poter pensare l’incontro: quello “incorporeo” dell’on-line, in cui il sociale è sostituito dai social e il corpo dagli schermi. La “vecchia” realtà è stata sostituita da una neo-realtà che sa di irrealtà. E in questa neo-normalità siamo più “immagini” e “consumatori” che “abitanti dello spazio e del mondo”.

La clinica ci mostra come oggi le forme di ansia si moltiplichino e quanto sia più difficile in queste condizioni rasserenarsi e gestire le proprie preoccupazioni. Come mi raccontano i miei pazienti più giovani, spesso la paura, il vissuto di fragilità e di pericolo e la preoccupazione diventano depressione e o disperazione là dove non è possibile pensare alternative. Il futuro è tagliato, traumatico e depressivo. Siamo avvolti dal “cordoglio anticipatorio” della sua morte…

Quali ANTIDOTI dunque alla disconnessione totale da pandemia?

Quali al turbocapitalismo che, in assenza di altro, ci vuole distratti ad acquistare, a produrre, a consumare… e che per il resto ci rende anomici, stanchi, apatici?

Perché il Covid non è l’unica causa di ciò. Esso è piuttosto un amplificatore: Il virus è un’emergenza che rende visibili, emergenti, altri disagi già tipici di un’epoca in cui l’umano non è più al centro del mondo.

E tuttavia, io non voglio narrare “Cronache post-umane” in cui l’umano smette di esistere.

Voglio sollecitare l’idea che è vero: siamo stati buttati fuori a calci dalla normalità… Ma quale “normalità”? La rivogliamo, rivogliamo “LA normalità”, ciò che eravamo prima… Ma quella era davvero una “buona” normalità? Oppure ne possiamo costruire una nuova?

Io credo di sì. Voglio allora sollecitare la necessità di risignificare in un senso più generativo il reale, di ricordare che è possibile un altro mondo, un’altra dimensione ben più abitabile di quella attuale, che è possibile costruire alternative.

Facciamolo insieme (:

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Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (D.O.C.) https://www.psicologa-noemiventurella.it/psicopatologia/il-disturbo-ossessivo-compulsivo-d-o-c/ https://www.psicologa-noemiventurella.it/psicopatologia/il-disturbo-ossessivo-compulsivo-d-o-c/#respond Sat, 01 May 2021 19:27:54 +0000 https://www.psicologa-noemiventurella.it/?p=1746 Presenterei il Disturbo Ossessivo-Compulsivo attraverso uno dei miei film preferiti: „Qualcosa è cambiato“.   https://www.youtube.com/watch?v=fw0o5uCDUcY&ab_channel=HOMECINEMATRAILER Come lascia intuire il trailer, il film racconta di Melvin Udall, un mitico Jack Nicholson trattenuto e iper-controllato, con comportamenti scostanti e bizzarri per via della paura del diverso e della contaminazione. Ciò si traduce in una radicata ritrosia [...]

L'articolo Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (D.O.C.) proviene da Psicologa a Palermo Noemi Venturella.

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Presenterei il Disturbo Ossessivo-Compulsivo attraverso uno dei miei film preferiti: „Qualcosa è cambiato“.

 

Come lascia intuire il trailer, il film racconta di Melvin Udall, un mitico Jack Nicholson trattenuto e iper-controllato, con comportamenti scostanti e bizzarri per via della paura del diverso e della contaminazione. Ciò si traduce in una radicata ritrosia a lasciarsi andare che lo porta a una vita solitaria. Melvin infatti teme il contatto con gli altri, con le righe del marcipiede, con le posate del ristorante; la sera deve chiudere più volte tutte le serrature di casa e deve lavare le mani più e più volte, ogni volta con acqua bollente e con saponi sempre diversi.

Sembrano inspiegabili stranezze, invece si tratta di un disturbo molto noto: il disturbo ossessivo compulsivo. Esso è tipico di persone incapaci di gestire l’ANSIA con difese adattative. Ricorrono perciò inconsciamente a Meccanismi di Difesa che la convogliano verso oggetti o idee specifiche e che la risolvono (apparentemente) con azioni di controllo e di eliminazioni del pericolo. Il D.S.M.5 parla nello specifico di ossessioni e/o compulsioni, sintomi che, come mostra il film, sono molto disturbanti e capaci di generare un’intensa sofferenza psichica e una grave limitazione della libertà individuale.

Ma cosa sono le Ossessioni?

Si tratta di idee persistenti e disturbanti che invadono automaticamente il soggetto. Esse intralciano il normale corso del pensiero: la persona che ne è preda, ha difficoltà a orientare diversamente i suoi pensieri; sperimenta così una spiacevole sensazione di disagio che può arrivare a livelli molto elevati, fino a una sorta di paralisi dell’attività ideativa. Altro carattere dell’idea ossessiva è l’iterazione, cioè il suo ripetersi continuo e afinalistico; ne deriva la sensazione di non averne possibilità di controllo. Il soggetto, inoltre, avverte questi contenuti come irrazionali ed indipendenti dalla propria volontà.

Le ossessioni possono essere costituite da semplici parole, motivi musicali, immagini, frasi.
In base ai TEMI, se ne possono inoltre distinguere vari tipi:

  1. DUBITATIVE: dubbio di avere compiuto o no una certa azione („ho chiuso o no la porta?“) o di non averla eseguita perfettamente bene; ne consegue la necessità compulsiva di controllare più volte l’esecuzione della stessa.

  2. INTERROGATIVE: riguardano problemi metafisici o di difficile risoluzione o anche di scarsa importanza che angustiano la persona e “occupano” la sua mente.

  3. di DANNO: consistono nel timore di aver involontariamente nuociuto a qualcuno; la persona torna di continuo con la propria mente su tali episodi ed è tormentato dalla possibilità dell’eventuale danno causato.

  4. MNESTICHE: il soggetto è assillato dal bisogno di ricordare qualcosa senza che ciò sia strettamente necessario o finalizzato.

  1. di CONTAGIO o CONTAMINAZIONE: timore di essere contagiato e di contagiare a propria volta.

E cosa sono le Compulsioni?

Si tratta delle strategie utilizzate per attenuare la morsa dei pensieri ossessivi: il soggetto è spinto verso atti, gesti o pensieri che non può fare a meno di realizzare per gestire il suo forte stato di ANSIA. Tali comportamenti consentono l’attenuazione della tensione psichica e rappresentano un drammatico compromesso tra l’aspetto razionale e quello irrazionale. Infatti, la persona ha la consapevolezza del loro aspetto illogico e afinalistico, ma ha egualmente bisogno di compiere quell’azione, pena un peggioramento dell’angoscia. Si tratta infatti di una sorta di rituale liberatorio. Queste condotte tendono a diventare ripetitive e stereotipe e a volte assumono una complessità via via maggiore nel tempo, sottraendo al paziente tempo ed energie mentali e creando disturbo ai familiari e all’intero funzionamento sociale.

La Terapia del D.O.C. →

Se non trattato, il disturbo può essere profondamente angoscioso per la persona e può intaccare significativamente la capacità di gestire gli aspetti più basilari della vita (es. svolgere il proprio lavoro, intrattenere relazioni sociali equilibrate, etc.). Esso necessita di una cura ad ampio spetto, basata sulla farmacoterapia per il controllo dei sintomi parassitari e sulla psicoterapia.

La psicoterapia psicodinamica è utile per approfondire il significato simbolico dei sintomi e per esplorare l’area conflittuale dalla quale emerge la patologia. Tramite essa, sarà possibile nel tempo sciogliere i nodi che ingabbiano il paziente entro rigide ossessioni e compulsioni ritualistiche. Difficile per quanto sembri, infatti, Qualcosa può sempre cambiare!

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